Quando è finito un quadro? Quando il tocco aggiunto diventa l’ultimo tocco perché l’opera è ormai perfetta? Consideriamo tutti perfetta, per esempio, la Gioconda. Ma i baffi che le aggiunge Duchamp, che non sono certo uno sfregio, aprono un nuovo campo di esplorazione e svelano un nuovo pensiero per un’arte dove l’idea di perfezione appare un limite, piuttosto che un obiettivo da raggiungere.
L’opera non è mai l’istantanea che fissa un momento per sempre, ma è un’energia in divenire. Accogliere i grandi lavori del passato significa farli vivere nel nostro mondo, e il Cenacolo di Leonardo visto con gli occhi di Andy Wahrol non è meno interessante dell’originale, anzi, in un certo senso ne fa parte, ne è un passaggio, una trasformazione.
L’arte non cade mai su un punto fisso, ma si produce in un movimento, nella produzione di una differenza che la routine della vita tende a rendere invisibile.
Questo non vale solo diacronicamente, sulla linea in cui gli artisti contemporanei si riappropriano delle opere del passato, come Bacon che traduce le angosce del nostro mondo nel volto sfigurato di un’Innocenzo X reinterpretato a partire dal ritratto di Velasquez. Vale anche per l’artista al lavoro con forme e colori che si producono in una molteplicità e in una ricchezza a volte difficili da disciplinare in una sola tela. La tensione interiore di queste forme si insegue in variazioni ognuna delle quali non è il superamento dell’altra, ma ne rappresenta solo la continuazione in una corrente continua. È allora come una festa, un’esplosione di forme e di colori, una sovrabbondanza che nessuna figura statica può contenere.
Liliana Ciotto, con la sua opera “La festa della forma imprendibile” entra esattamente in questa dimensione dinamica dell’arte, in un’arte che non insegue la perfezione di ciò che è compiuto una volta per tutte, ma che si apre all’infinita varietà del reale, agli scorci interessanti ciascuno dei quali potrebbe essere un quadro compiuto, ma che in ogni passaggio ci suggerisce: “Guarda questo, e anche questo, e questo ancora!”. Le immagini che si trasformano sotto in nostri occhi non si susseguono in una logica di aggiunte. Ciascuna potrebbe essere da sé completa, ma la successiva non è meno interessante né meno completa, e ci rendiamo conto che il flusso di fronte a cui siamo non va all’inseguimento di una meta, ma è la pura esibizione di una ricchezza visiva che ci cattura lo sguardo, che ci tiene in sospeso, che fa entrare nella visione la dimensione temporale dell’attesa. Il nostro sguardo non si ferma su un’immagine ma, nel godere di quella che appare, segue la sua fuga verso la successiva. Ma questa formulazione è ancora insufficiente, perché potrebbe far pensare a elementi discreti, discontinui, mentre l’opera di Liliana trova una dimensione al di là dell’ordine discreto, è la pura presentazione del flusso.
I colori caldi, empatici, mai tuttavia enfatizzati, sono tenuti tenuti insieme da un'armonizzazione che appare come una disciplina emotiva, un'intensità forte che rifiuta di trasporsi nelle emozioni selvagge, e ci accolgono per portarci in una fuga di sensazioni che ci accarezzano, ci seducono, filtrano la violenta pulsione di guardare a cui ci espongono.
Il cinema ci coinvolge raccontandoci storie attraverso immagini in movimento. La forza del lavoro di Liliana è di farci entrare nella dimensione temporale
legata al movimento, senza bisogno di raccontarci nessuna storia. Le figure sono astratte, non hanno nulla a che vedere con la rappresentazione. Danno anzi un senso di concretezza senza al di là, sono pienamente immanenti e, diversamente da molta parte dell'arte contemporanea, non hanno conti in sospeso con la bellezza. L'abbracciano anzi senza riserve, e ci fanno capire che i drammi del mondo contemporaneo, le crisi, il logoramento consumistico, non ne hanno ucciso in noi il senso spontaneo. Ma ci vuole un artista che sappia capirlo e mediarlo per portarcelo davanti agli occhi e ricongiungerci con essa.