Marco Focchi
Puede escribir sus comentarios aPer parlare di clinica, nella psicoanalisi, occorre distinguere concetti diversi che vengono abitualmente sovrapposti. Il concetto di clinica viene considerato scontato, come sapessimo già cos'è, e questo fa scivolare il pensiero verso quel che s'intende con clinica nella medicina, inducendo confusione e creando false aspettative. Se ci si lascia attrarre dalla generalizzazione che uniforma pratiche diverse come quella medica, quella pedagogica, o quella psicoterapeutica, ci si costringe su un letto di Procuste dove tutto viene filtrato dal semplice algoritmo aziendale costi-benefici. Per la psicoanalisi infatti, diversamente che per la medicina, non sussiste una clinica fatta di osservazione, di dati, di numeri, di statistiche, perché occorre fare posto a una dimensione soggettiva non coniugabile con le esigenze della misurazione. Per altro verso, se anche il compito educativo implica una dimensione soggettiva, nella pedagogia questa è però rivolta a un sapere che, a differenza di quello inconscio, si accumula, e si basa sulla prospettiva di una crescita graduale e costante. L'obiettivo psicoterapeutico può poi essere individuato nel superamento di una sofferenza sintomatica, ma occorre definire cosa sia il sintomo quando questo non coincide esclusivamente con i problemi generati da disfunzioni organiche.
Articolazione della clinica con l'etica
Una pratica che mette in gioco il soggetto nel modo in cui lo fa l'esperienza psicoanalitica, implica necessariamente una clinica articolata con l'etica. Possiamo prendere l'etica da molte angolature diverse, considerare che sia il modo di vivere bene la propria vita, o la ricerca di
un bene, la ricerca di modo per abitare il proprio mondo, o fare il proprio dovere, o non cedere sul proprio desiderio. Nella prospettiva di oggi prendiamo l'etica nel senso più generale, come una dimensione legata alla possibilità di scelte in cui il soggetto si mette in gioco, dove la scelta non è semplicemente tra diversi dati, ma tra diverse modalità o possibilità di esistenza. Una prospettiva positivista, riduzionista, quella abbracciata dalla medicina a partire dal secolo XIX, e fatta di concatenazioni tra cause ed effetti, non potrebbe svilupparsi in direzione di una clinica che includa l'etica, il cui presupposto, nel senso più generale, è una libertà soggettiva. I comitati etici, in medicina, rimangono normalmente entità esterne al campo della clinica, le loro decisioni non sono intrinseche alla possibilità delle operazioni, e riguardano piuttosto la loro opportunità, il fatto se sia giusto o no procedere in una direzione che, dal punto di vista tecnico, è in ogni caso considerata praticabile.
I presupposti della medicina scientifica
La clinica si sviluppa in primo luogo nella medicina. Da quando si è inscritta nel discorso scientifico, la medicina si è spinta sempre più in direzione di un'oggettivazione della clinica, per costituendola attraverso dati sperimentali, di osservazione, sviluppando una conoscenza affidabile, verificabile e condivisibile della realtà a cui si rivolge.
Storicamente la medicina inizia a prendere questo corso con Claude Bernard, che occupò la prima cattedra istituita di fisiologia alla Sorbona, e la cui opera principale fu un'Introduzione allo studio sperimentale della medicina, libro la cui prima parte è un'ampia esposizione del metodo sperimentale, e la seconda e la terza riguardano l'applicazione di questo
Questo avviene quando l'anatomia patologica promossa da Xavier Bichat, che appartiene alla generazione precedente a quella di Bernard, svela la verità del corpo. Occorre tuttavia attendere gli esperimenti in vivisezione di Bernard perché la medicina si inscriva nel discorso scientifico e faccia proprio il vincolo che la impegna ad attenersi a un rigoroso determinismo. Solo quando quella che appare come la spontaneità del vivente è ricondotta all'inerzia dei corpi fisici, il determinismo del discorso scientifico può far presa sul vero e proprio oggetto della medicina: il corpo non vissuto.
L'inconscio deterministico
Questa costruzione storica e scientifica ci interessa direttamente perché anche la nozione di inconscio, nel suo momento costitutivo, è debitrice di un'idea deterministica. Freud infatti giustifica inizialmente l'inconscio attraverso le lacune della coscienza. È possibile osservare alcuni atti, gli atti mancati, che sfuggono al controllo della coscienza. Nello stesso modo ci sono espressioni verbali, i lapsus, che vanno contro l'intenzione di quel che il soggetto vuole consapevolmente dire. C'è tutto un mondo, quello onirico, che avviene al di fuori della coscienza, che si svolge su un'altra scena. Il ragionamento di Freud è allora che dove viene meno la determinazione di un'istanza psichica, la coscienza, deve necessariamente prendere il controllo un'altra istanza a essa estranea. Questa nuova istanza, che si manifesta solo in modo indiretto, è l'inconscio.
Questa prima definizione freudiana dell'inconscio ha un carattere strettamente deterministico e, sopratutto, è una definizione che dipende
C'è qualcosa più forte di me
L'inconscio freudiano è allora innanzitutto la manifestazione del fatto che c'è qualcosa più forte di me, c'è qualcosa che non posso ricondurre alla ragionevolezza, alla buona volontà, al controllo. Con la scoperta dell'inconscio il logos – che interpretato in termini di ragione viene concepito come una facoltà, cioè come un potere, uno strumento di cui l'uomo si può servire – si rivela invece come qualcosa che non è completamente in potere dell'uomo, e che piuttosto, se pensiamo al logos come linguaggio, ha l'uomo in suo potere. È quel che Lacan esprime a più riprese negli anni Settanta dicendo che il linguaggio è il parassita dell'uomo.
Definire il linguaggio come parassita dell'uomo è senz'altro avvalersi di una metafora, ma è una metafora talmente aderente alla realtà che dovremmo forse prenderla alla lettera: nella relazione parassitaria infatti, a differenza da quella simbiotica, l'ospite trae vantaggio a spese dell'ospitante creandogli un danno biologico. E sicuramente il linguaggio induce nell'uomo, se non un danno, un impoverimento vitale, lo disarma biologicamente rispetto all'animale nel momento stesso in cui gli fornisce una guida e uno strumento al posto del binario istintuale da cui lo fa deragliare.
I limiti interni della ragione
L'inconscio è l'idea che non tutto il linguaggio viene circoscritto da quel che chiamiamo ragione. Questo non significa che parlare di inconscio ci porti verso qualsivoglia forma di irrazionalismo. È una china interpretativa facile questa, che a volte è stata presa, ma che tradisce
Minotauro è un pantano, il Minotauro è l'incubo che sveglia di notte, il Minotauro, in ultima istanza è qualcuno con cui è impossibile venire a patti, ma con il quale sappiamo di dover convivere.
L'inconscio è quindi innanzitutto un versante di qualcosa per noi così familiare, come il linguaggio, la lingua materna in cui ci esprimiamo, ma che invece di assecondarci ci prende la mano, ci sfugge e ci determina, ci porta in direzioni che non abbiamo scelto, spinti da forze che non governiamo.
Follia e libertà
Il trattamento morale degli psichiatri illuministi faceva appello alla ragione, a quel residuo di ragione che la follia non aveva potuto spegnere, faceva appello a quel po' di libertà che l'uomo poteva ancora avere per contrastare le nebbie del delirio. Oggi sappiamo che non è il delirio a offuscare la ragione, e che la ragione stessa ha un fondo opaco che ci scappa di mano.
Ne La psicopatologia della vita quotidiana Freud notava, per esempio, che ci sentiamo abitualmente liberi di scegliere le parole e le immagini con cui esprimiamo le nostre idee, ma che, a un'osservazione più attenta, ci si rende conto che sono considerazioni estranee alle idee a determinare i modi e le forme in cui trasmettiamo queste stesse idee, e che le nostre idee rivelano un senso più profondo di quello apparente, di cui noi stessi non ci rendiamo conto.
Da questo punto di vista, l'inconscio sembra essere in posizione antitetica rispetto alla libertà, sembra essere ciò che ci incatena, che non ci permette di fare quel che vorremmo.
Nel Discorso sulla causalità psichica, a Bonneval, nel 1946, Lacan sembra andare in questa stessa direzione quando dice, nella frase mille volte citata: "L'essere dell'uomo non solo non può essere capito senza la follia, ma non sarebbe l'essere dell'uomo se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà".<br />
È un passaggio estremamente significativo, perché in fondo, come gli psichiatri illuministi, Lacan identifica qui la libertà con la ragione. Questa frase esprime un punto di vista molto classico, che va nello stesso senso in cui va tutta la riflessione del pensiero occidentale sulla libertà, dove la libertà viene attribuita alla ragione, all'autodeterminazione che la ragione permette, perché la ragione illumina l'essere e consente di vedere, di capire e di scegliere adeguatamente.
Avere in sé la propria causa
Se c'è un tema sui cui tutta la tradizione del pensiero occidentale si è soffermata a riflettere è proprio quello della libertà, e per quanto varie possano essere le prospettive dei filosofi, e innumerevoli le sfaccettature da cui il concetto è preso, il nucleo di fondo che percorre il pensiero della libertà dalla Grecia a oggi consiste nell'affermare che è libero chi ha in sé la propria causa. La prima definizione in questo senso è di Aristotele che, nell'Etica a Nicomaco, descrive l'uomo come il principio e il padre dei propri atti nello stesso modo in cui è padre dei propri figli.
È da notare come la nozione di libertà, definita dal fatto di avere in sé la propria causa, dipenda comunque da quella di causa. Quest'aspetto
possibilità di una causa sui o, quando considera universale il principio di causalità nella sua forma empirica, trova la propria ragione negando una causalità autonoma.
Quando la medicina fa il passo necessario per integrarsi nella scienza, deve allora abolire innanzitutto l'idea di una spontaneità del vivente, e costituire una clinica oggettiva basata su connessioni causali.
Muovendosi in questa direzione Claude Bernard aveva bisogno di stabilire un principio d'inerzia dei corpi viventi in modo analogo a quello in cui Galilei definiva l'inerzia dei corpi nella fisica, ed era necessario per lui vedere tale inerzia come la condizione necessaria per fondare una clinica osservativa basata su un assoluto determinismo. L'attuale evidence based medicine è semplicemente erede di questi principi.
La causa di desiderio
Consideriamo ora la causalità come si pone nel discorso psicoanalitico. Freud attribuisce la causalità dell'accadere psichico, in ultima istanza, alle pulsioni.
Se in un primo momento Freud considera che quel che muove l'apparato psichico sia la ricerca del piacere, quando afferma la causalità pulsionale, nella fase finale della sua riflessione, le sue riflessioni coinvolgono tutta la complessità della causalità traumatica. Non si tratta più solo di piacere ma di, possiamo dire, quel che ha costituito la differenza iniziale, l'evento pulsionale che segna una differenza irriducibile a cui l'essere ritorna in modo sempre variato. Abbiamo allora il fenomeno della ripetizione, che non è la ripetizione dello stesso, ma piuttosto la ripresa della differenza.
Sono tutti termini che si riferiscono al linguaggio del determinismo: coazione, automatismo. E, in effetti, cos'è la pulsione? Per l'aspetto in cui riesce a formularsi è una domanda che si rivolge all'Altro. Ciò a cui il bambino aspira può venire solo dall'Altro, e deve passare per una codifica nel suo linguaggio. È una domanda nella quale il soggetto si abolisce, è la domanda che permane nel circuito inconscio, una domanda alla quale uno dei precetti fondamentali della psicoanalisi indica che non bisogna rispondere. Perché? Semplicemente perché è impossibile. Se si tenta di rispondere ci si perde nel labirinto inestricabile di una domanda che nulla può soddisfare. Non è una domanda di sapere, è una domanda di ottenere, non è quero, è peto, è una petizione che nessuno può accontentare perché non chiede qualcosa ma chiede l'essere.
Questa petizione rivolta all'essenza dell'essere umano non ha modo di trovare soddisfacimento, perché non nasce dalla mancanza di qualcosa che si potrebbe avere, nasce da una mancanza d'essere.
Nella psicoanalisi dunque sappiamo di non dover rispondere a questa domanda, perché sappiamo che rispondervi rende il soggetto schiavo, lo incammina lungo la via della tossicodipendenza, dell'alcolismo, della bulimia. Questo viene splendidamente espresso da Baudelaire:
Il faut être toujours ivre. Tout est là: c'est l'unique question. Pour ne pas sentir l'horrible fardeau du Temps qui brise vos épaules et vous penche vers la terre, il faut vous enivrer sans trêve.
La domanda inconscia, che gira intorno a una voragine insaziabile, è il correlato di qualsiasi forma di dipendenza. Quella che si chiama tossicodipendenza, per un verso, è solo la forma amplificata, esasperata della dipendenza che in ogni forma deriva dal fatto di essere abitati da questa domanda, e per altro verso è ciò che mostra il versante distruttivo che si incontra quando si forza la risposta a questa domanda, e la forzatura attraverso la sostanza è solo l'esempio più macroscopico.
Il capitalismo ha una sua risposta a questa domanda attraverso l'incessante produzione di oggetti. Sono oggetti che si consumano con rapidità crescente. Il consumismo è un modo di sfruttare politicamente, a fini di dominio, la dipendenza creata da questa domanda, dandole in pasto oggetti surrogativi che devono rinnovarsi continuamente.
La domanda che nasce dalla mancanza d'essere al cuore dell'esperienza umana, porta il soggetto a rivolgersi all'Altro, e la domanda nella sua dimensione inesauribile può avere una risposta solo nella dimensione dell'amore, perché solo nell'amore la risposta si offre sul piano dell'essere – e quando la domanda d'amore si avvita in un cortocircuito pulsionale diventando domanda di avere, allora diventa divorante, e dà luogo a tutte le forme di psicopatologia che la vita contemporanea ha messo in evidenza occultando quelle classiche dell'isteria e della nevrosi ossessiva: la tossicodipendenza, l'alcolismo, la bulimia, lo shopping compulsivo, il panico, e la lista si allunga all'infinito.
Il soggetto colloca nell'Altro l'oggetto che causa il proprio desiderio e,
Solo il folle è libero
Per questo quando, in una conferenza tenuta agli psichiatri nel 1967 a St. Anne, Lacan riprende l'affermazione fatta a Bonneval sulla follia come limite della libertà, ma la rovescia, dicendo che solo il folle è libero. Perché? Perché il folle non mette la causa del desiderio lo accompagna, in forma di voci, in forma di allucinazioni, in forma di fenomeni elementari.
Il folle non deve passare attraverso la domanda per avere l'oggetto causa, anche se averlo già presso di sé può risultare decisamente angosciante
Non sono molti i punti dove Lacan parla della libertà esplicitamente, e quelli in cui ne parla non sembrano porla nella posizione d'onore che abitualmente le viene assegnata dalla filosofia.
Non dobbiamo però farci scoraggiare, perché in fondo questa visione senza slancio del concetto di libertà riguarda il concetto classico, quello in cui la libertà è considerata come avere in sé la propria causa, che non è il solo modo di vedere le cose.
C'è un altro aspetto da considerare. Tutte le difficoltà che il soggetto incontra nel relazionarsi con l'altro sesso – e la maggior parte delle
Disobbedire all'istinto
Parlavo prima dell'impoverimento biologico indotto all'acquisizione del linguaggio. Un aspetto è questo: che il linguaggio non sostituisce adeguatamente l'istinto nel guidarci verso il partner sessuale, e che quando ci arriviamo dobbiamo passare sempre per vie contorte, con delle mascherate, con delle parate, dove le cose non sono mai esattamente quelle che appaiono, e questa complicazione diventa una delle maggiori cause di divorzio.
Lacan sintetizza quest'idea dicendo che non c'è rapporto sessuale, ovvero che l'accoppiamento con il partner non è guidato dai sicuri binari dell'istinto. L'uomo non obbedisce all'istinto: questo è, secondo me, un altro modo di formulare l'idea che non c'è rapporto sessuale.
Dove l'animale è vincolato, completamente determinato dall'istinto, l'uomo può agire in un modo che non segue l'ordine delle concatenazioni naturali, può sfuggire al condizionamento della natura.
Quel che Lacan mette quindi sotto l'indice della negatività dicendo che non c'è rapporto sessuale, ha come risultato l'affermazione di una scelta possibile che non è già inscritta nei codici genetici.
Viene da qui la necessaria articolazione tra clinica ed etica, perché per quanto la nostra clinica esplori le forme di coazione, i condizionamenti a cui il soggetto è sottoposto, non è per sottometterli a un imperativo